Le indagini finanziarie e le presunzioni relative ai prelevamenti

Una recente Sentenza della Corte di Cassazione (n. 20735/2010) offre lo
spunto per affrontare alcuni profili del tema attinente le presunzioni
applicabili ai “prelevamenti” e, più in generale, ai movimenti in uscita,
nell’ambito delle indagini e degli accertamenti finanziari e bancari.

Laquestione, è noto, ruota attorno al disposto dell’art. 32, n. 2, DPR 600/73, che
testualmente recita:

“I dati ed elementi attinenti ai rapporti bancari
ed alle operazioni acquisiti e rilevati rispettivamente a norma del numero 7) e
dell’art. 33, secondo e terzo comma, … sono posti a base delle rettifiche e
degli accertamenti … se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto
conto per la determinazione del reddito soggetto ad imposta o che non hanno
rilevanza allo stesso fine; alle stesse condizioni sono altresì posti come
ricavi o compensi a base delle rettifiche ed accertamenti, se il contribuente
non ne indica il soggetto beneficiario
e sempreché non risultino dalle
scritture contabili, i prelevamenti o gli importi riscossi nell’ambito dei
predetti rapporti od operazioni. Le richieste fatte e le risposte ricevute
devono risultare da verbale sottoscritto anche dal contribuente o dal suo
rappresentante …”.

Le parti sottolineate nel testo pongono in risalto
una diversa intensità nel grado di collaborazione richiesto al contribuente per
vincere e superare le presunzioni in parola: nessuno potrà infatti affermare che
“dimostrare” e “indicare” siano, sotto un qualsiasi punto di vista,
sinonimi.

Tuttavia si sta consolidando un filone giurisprudenziale di vertice
che, sul punto, appare più pretenzioso e meno garantista rispetto alle posizioni
assunte dalla stessa Amministrazione Finanziaria, ponendo a carico del
contribuente accertato non solo l’obbligo dell’indicazione del beneficiario del
movimento in uscita (adempimento che il Legislatore ha previsto con il fine di
consentire l’estensione della verifica nei confronti del soggetto percettore,
scoraggiando con la presunzione in esame eventuali comportamenti reticenti od
omertosi) ma un ben più intenso obbligo di fornire la prova contraria.

Appare
utile rammentare che, investita della questione, la Corte Costituzionale, con la
celeberrima Sentenza n. 225 dell’8 giugno 2005, ha si confermato la legittimità
costituzionale della norma, ma nell’ottica della salvaguardia del principio
della capacità contributiva, sancendo testualmente che “l’assunto del
rimettente, relativo all’indeducibilità delle componenti negative del maggior
reddito d’impresa accertato in base alla norma impugnata, non solo è apodittico,
ma risulta altresì smentito dalla più recente giurisprudenza di legittimità,
secondo cui, in caso di accertamento induttivo, si deve tener conto – in
ossequio al principio di capacità contributiva – non solo dei maggiori ricavi ma
anche dell’incidenza percentuale dei costi relativi, che vanno, dunque, detratti
dall’ammontare dei prelievi non giustificati”
.

L’interpretazione datadai giudici costituzionali sembra chiara: se non si vuol creare materia
imponibile fittizia attraverso la “trasfigurazione” di un movimento in uscita
nel suo esatto opposto, si dovrà ammettere che alla produzione del “ricavo /
compenso nero” hanno concorso “costi neri” (di cui il movimento finanziario non
giustificato è chiaro sintomo), la cui deduzione non può essere
negata.

L’evoluzione giurisprudenziale di merito e di legittimità sembra
creare le condizioni per una nuova remissione della questione alla Corte
Costituzionale affinché venga valutata la compatibilità della presunzione
attinente i prelevamenti non giustificati con i principi costituzionali della
ragionevolezza e della capacità contributiva.

Autore: Mauro Comin – Centro Studi CGN