Il fisco può agire direttamente nei confronti dei soci di una società in nome collettivo senza la preventiva escussione del patrimonio societario anche nel caso in cui, nel frattempo, gli amministratori abbiano provveduto alla cancellazione della stessa dal registro delle imprese. A dirlo è la Corte di Cassazione nella sentenza n. 12799 depositata in cancelleria il 10 giugno 2011.
La vicenda trae origine dalla pretesa, da parte dell’Amministrazione Finanziaria, di sanzioni IVA relative al periodo d’imposta 1992, comminate alla società che era stata cancellata dagli amministratori dal registro delle imprese a decorrere dall’anno 1996.
Sulla base della pronuncia della Commissione tributaria regionale, il ricorso dei soci in nome collettivo era stato accolto ed era stata annullata la pretesa erariale. I giudici di merito, infatti, avevano motivato la suddetta pronuncia adducendo che l’ufficio non aveva fornito la prova della preventiva escussione del patrimonio della società. Al riguardo, infatti, l’art. 2304 del codice civile, rubricato Responsabilità dei soci, stabilisce che “I creditori sociali, anche se la società è in liquidazione, non possono pretendere il pagamento dai singoli soci, se non dopo l’escussione del patrimonio sociale”. La Suprema Corte, invece, ha ribaltato la decisione della Commissione tributaria centrale ritenendo che nelle società in nome collettivo, anche se ormai cancellate dal registro delle imprese, i soci rispondono illimitatamente di tutte le obbligazioni, anche fiscali, senza che il creditore debba procedere ad una preventiva escussione del patrimonio sociale della società.
I giudici di legittimità, quindi, hanno introdotto un inedito significato al dettato dell’articolo 2304 del codice civile. In particolare, secondo i giudici, la preventiva escussione del patrimonio della società non è un “adempimento procedurale obbligatorio” che, se disatteso, determina la preclusione a un’estensione delle obbligazioni ai soci. Secondo la vigente disciplina, infatti, i soci della società in nome collettivo rimangono solidalmente obbligati con la società stessa fino al completo esaurimento dei debiti sociali.
La pronuncia della Suprema Corte appare totalmente nuova in quanto, come noto, nelle società in nome collettivo tutti i soci rispondono solidalmente e illimitatamente per le obbligazioni sociali, con la conseguenza che i creditori sociali possono soddisfare le loro pretese sia sul patrimonio della società sia su quello dei soci. Tuttavia, la responsabilità della società e quella dei soci non è sullo stesso piano in quanto i soci, pur essendo responsabili tra loro, lo sono in via sussidiaria verso la società e, peraltro, stante il tenore letterale dell’art. 2304, godono del beneficio della preventiva escussione del patrimonio sociale.
Invero, il creditore sociale può rivolgersi direttamente al socio illimitatamente responsabile, il quale ha l’onere di invocare la preventiva escussione del patrimonio della società se, però, indica beni su cui il creditore possa soddisfare le pretese. Il beneficio di escussione, quindi, opera in via eccezionale e il socio, se non prova che nel patrimonio sociale sono presenti beni il cui valore è sufficiente a soddisfare il creditore, sarà tenuto a pagare la pretesa di quest’ultimo.
Il principio sancito dalla Suprema Corte con la sentenza n. 12799 del 2011 è innovativo, inoltre, anche perché, sebbene la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 15700 dell’8 novembre 2002, aveva messo in dubbio l’efficacia della preventiva escussione del patrimonio della società rispetto a quello del socio, lo aveva fatto affermando che l’efficacia della disposizione dell’art. 2304 del codice civile era circoscritta alla fase esecutiva e non in senso generale. In altri termini, secondo tale pronuncia, il creditore (nonostante il disposto dell’art. 2304 c.c.) poteva ugualmente agire in sede di cognizione per munirsi di uno specifico titolo esecuti nei confronti del socio, onde poter iscrivere ipoteca giudiziale sugli immobili di costui ovvero agire nei suoi confronti senza indugio.