Il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente, anche per l’evasione di minori dimensioni, sta ormai trovando sempre più applicazione per i reati tributari commessi dagli imprenditori e dai rispettivi consulenti.
Al riguardo, si deve osservare che l’Amministrazione Finanziaria la sta utilizzando come grimaldello per accedere alle misure cautelari, anche grazie al disposto dell’art. 1, comma 143 della legge n. 244/2007, che ha esteso la portata dell’articolo 322-ter del codice penale ai reati tributari.
La conseguenza più significativa della suddetta estensione è data dalla confisca dei beni che costituiscono il profitto o il prezzo del reato, salvo che appartengano a persona estranea al reato. Quando non è possibile colpire il bene oggetto dell’illecito, bisognerà confiscare i beni, di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a tale prezzo.
La confisca, stante la pronuncia della Suprema Corte, è collegata alla disponibilità dei beni e, quindi, all’effettivo possesso e godimento degli stessi, a prescindere da chi sia il proprietario del bene. In merito, infatti, preme ricordare che la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 18527 del 2011, ha ritenuto corretto assoggettare a sequestro preventivo, finalizzato alla confisca per equivalente, i beni cointestati con terzi estranei, ma comunque nella disponibilità dell’indagato, “senza che valgano in contrario eventuali presunzioni o vincoli regolanti i rapporti interni tra creditori e debitori solidali, essendo scopo della norma proprio quello di evitare che i beni che si trovino nella disponibilità dell’indagato possano essere definitivamente dispersi”.
Al riguardo, si ricorda che talvolta imprenditori e consulenti effettuano operazioni il cui intento è quello di celare la volontà di nascondere ricchezza al fisco.
Tra le più ricorrenti abbiamo:
- la costituzione di un fondo patrimoniale;
- la costituzione di un trust;
- le separazioni coniugali fittizie;
- la vendita a terzi correlati.
In base alla citata pronuncia della Suprema Corte del 2011, eseguire tali operazioni in un momento successivo alla presentazione della dichiarazione, prima che siano iniziati accessi, ispezioni o verifiche potrebbe far scattare il reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte di cui all’art. 11 del D.Lgs. n. 74 del 2000.
Secondo il tenore letterale dell’articolo succitato, commette il reato colui che, al fine di sottrarsi al pagamento delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto e relativi interessi e sanzioni, aliena simulatamente i propri beni o compie atti fraudolenti idonei a rendere inefficaci le azioni di riscossione coattiva. Gli elementi costitutivi del reato di cui all’art. 11 sono:
- sotto il profilo psicologico, il dolo specifico, il cui fine è quello di sottrarsi al pagamento della pretesa erariale;
- sotto il profilo materiale, invece, necessita il compimento di un’azione fraudolenta atta a vanificare l’esito dell’esecuzione tributaria coattiva.
In merito, c’è da ricordare che la norma non richiede che l’atto (eventualmente posto in essere dal debitore) vanifichi la pretesa tributaria. In base al testo dell’art. 11 del D.Lgs. n. 74/2000, l’evento materiale si trasforma da danno in pericolo, essendo sufficiente l’idoneità della condotta a raggiungere il fine illecito che il contribuente si prefigura. Ne deriva, quindi, che il momento di consumazione del delitto deve essere fissato al compimento di qualsiasi atto che possa mettere in pericolo l’adempimento di un’obbligazione tributaria.
Secondo quanto stabilito dai giudici di legittimità, quindi, un contribuente (commercialista), qualora abbia messo in atto delle operazioni solo potenzialmente idonee a rendere infruttuosa la riscossione, potrebbe vedersi sequestrare i beni che rientrano nella disponibilità dello stesso.