La crisi, partita dagli Stati Uniti dalla seconda metà del 2008, ha causato alle imprese un rallentamento dell’attività produttiva, la difficoltà di incasso dei crediti e la difficoltà di rispettare le obbligazioni assunte verso i propri stakeholders. La crisi viene definita come uno stato grave di instabilità che può scaturire nell’insolvenza, cioè l’incapacità di far fronte regolarmente ai pagamenti in scadenza, oppure nel dissesto, cioè un forte squilibrio patrimoniale che non garantisce il rimborso dei debiti.
Si possono distinguere tre tipologie di crisi:
- di settore, causata da un mercato obsoleto o da una contrazione della domanda;
- aziendale, dovuta a un errato posizionamento sul mercato o a un’organizzazione interna insufficiente;
- di natura finanziaria o patrimoniale, all’interno della quale rientrano lo squilibrio temporale tra investimenti e fonti di finanziamento e il sovradimensionamento degli investimenti.
Per prevenire la crisi, l’azienda deve essere orientata al perseguimento dell’equilibrio aziendale, ovvero quello Economico/Finanziario/Patrimoniale/Organizzativo. Inoltre è fondamentale la predisposizione di un sistema di check-up preventivo, che permetta di cogliere, già in fase iniziale, i segnali di squilibrio e di attuare quindi interventi non invasivi.
Se l’azienda è invece in una fase di declino, può adottare il Turnaround: esso consiste in un piano di riequilibrio economico – finanziario di lungo periodo volto al miglioramento complessivo della gestione d’impresa.
Alcune strategie che permettono il raggiungimento di tale obiettivo sono:
- focus sulle attività che creano maggior valore all’azienda;
- dismissione di quelle non strategiche;
- consenso di tutti gli stakeholders e stretta di alleanze o accordi di lungo periodo;
- conservazione degli investimenti strategici e attività di spin-off per quelli poco redditizi;
- riduzione dei costi attraverso miglior efficienza produttiva e flessibilità della propria organizzazione.
Se invece le imprese si trovano già in una situazione di crisi? Esse dovranno scegliere gli interventi che presentano il minor onere in termini di differenza tra il valore dell’impresa in crisi e il valore successivo a ogni scelta. Dovranno quindi:
- verificare la possibilità di accordo tra l’impresa in crisi e i maggiori creditori per evitare la dichiarazione di fallimento;
- predisporre un piano industriale, in genere con l’aiuto di un consulente, e successivamente un piano finanziario.
Per questo motivo gli strumenti adottati dovranno essere adatti a:
- soddisfare il diritto dei creditori a ottenere il rimborso dei loro crediti;
- soddisfare l’interesse di molti stakeholders alla continuazione dell’impresa;
- incentivare i comportamenti virtuosi;
- eliminare le imprese non risanabili.
Per fare questo la giurisprudenza è passata da una visione “liquidatoria” delle aziende in crisi a un’ottica “going concern”, ovvero orientata alla continuazione aziendale.
Infatti, a partire dalla riforma della legge fallimentare del 2006 e fino al Decreto Sviluppo convertito in legge nell’agosto 2012, sono stati introdotti nuovi strumenti che supportano le imprese in crisi, permettendo a queste ultime di uscire dallo stato di instabilità e di continuare la loro attività.
Andrea Radin – Centro Studi CGN