Allarme rientrato per le famiglie che hanno assunto a tempo indeterminato una colf o una badante. Il ministero del lavoro ha precisato infatti che il contributo di licenziamento introdotto dalla Riforma Fornero non si applica alle famiglie ma solo alle imprese. La precisazione è arrivata dopo che nelle settimane scorse era emersa una certa preoccupazione in merito da parte di Assindatcolf (Associazione nazionale dei datori di lavoro domestico). Riepiloghiamo le fasi principali della vicenda.
La Riforma del Mercato del Lavoro (legge 28 giugno 2012, n.92) ha introdotto, per i datori di lavoro che licenziano lavoratori dipendenti un contributo di licenziamento obbligatorio atto a finanziare le nuove indennità di disoccupazione Aspi e MiniAspi. L’ammontare del contributo viene determinato considerando 483,80 euro (41% del valore massimo dell’Aspi pari a 1180 euro) per ogni anno di anzianità lavorativa nei tre anni antecedenti il licenziamento, cosicché per un lavoratore assunto da oltre tre anni si viene a determinare un contributo pari a 1451,40 euro.
Al versamento del contributo sono tenuti tutti i datori di lavoro che, a partire dal 1 Gennaio 2013, decidono di licenziare i propri lavoratori dipendenti a tempo indeterminato, qualsiasi sia la causa del licenziamento. Rientrano infatti all’interno delle casistiche per le quali è previsto il versamento del contributo sia la giusta causa, sia il giustificato motivo, rimanendo escluse solamente le dimissioni volontarie del lavoratore e la risoluzione consensuale del contratto.
Tramite un comunicato pubblicato sul proprio sito internet in data 24 Gennaio, Assindatcolf aveva lanciato l’allarme per il provvedimento in questione in quanto, in base all’interpretazione data, avrebbe dovuto comprendere anche il rapporto di lavoro domestico. Partendo dalla considerazione che attualmente circa il 63% dei contratti di lavoro domestico termina con il licenziamento del lavoratore, la nuova “tassa” avrebbe infatti inciso non poco nel portafoglio delle famiglie italiane. Come se non bastasse, ad alimentare ancor di più la preoccupazione di Assindatcolf, ci aveva poi pensato l’Inps che, tramite una circolare pubblicata poco prima di natale, dava credito all’interpretazione della norma da parte dell’associazione di categoria.
Evidenziando la diversa situazione economica in cui si trova mediamente un datore di lavoro domestico (per la maggior parte pensionato) rispetto ad un’impresa, nonché le peculiarità del rapporto di lavoro domestico rispetto alle altre tipologie di rapporto di lavoro subordinato, Assindatcolf aveva intavolato un confronto con il Ministero del Lavoro nel quale chiedeva l’eliminazione del contributo o quanto meno la sua correzione. Il rischio denunciato era l’aumento del ricorso al mercato nero in un settore dove l’irregolarità è già molto alta: uno studio della Bocconi ha infatti stimato in circa un milione i lavoratori domestici non in regola, un numero addirittura superiore ai circa 871 mila iscritti regolarmente all’Inps (dati relativi al 2010).
A conclusione di quella che Assindatcolf ha definito una “brutta vicenda” è arrivato qualche giorno fa il comunicato stampa da parte del Ministero del Lavoro che conferma l’esclusione dall’obbligo di pagamento del contributo per i datori di lavoro domestico. Dopo aver consultato i suoi tecnici, il ministero ha inoltre assicurato che, contrariamente a quanto richiesto, non occorre modificare in nessun modo la legge ritenendo la stessa applicabile alle sole imprese e non alle famiglie.
Sospiro di sollievo dunque e soddisfazione manifestata da Assindatcolf sul proprio sito internet, dove a quanto pare si apprende anche dell’avvallo da parte dell’Inps della precisazione ministeriale. Il pericolo paventato di un maggior ricorso al lavoro nero pare pertanto essere scongiurato.
Davide Bottos – Centro Studi CGN