L’Amministrazione finanziaria ha il potere di disconoscere i costi portati in detrazione solo se fornisce elementi concreti da cui desumere l’inattendibilità dei costi o la non inerenza di essi all’attività d’impresa. Lo afferma la Sezione Tributaria della Corte di Cassazione con la sentenza n. 22130 del 27 settembre 2013. Analizziamo più in dettaglio i fatti.
Un avviso di accertamento dell’Agenzia delle Entrate emesso nei confronti di una società per azioni riprende a tassazione Iva relativa al periodo di imposta 2001, in relazione a costi relativi a operazioni ritenute prive del requisito di economicità poste in essere dalla società con un’altra società controllata.
La contribuente, a questo punto, costituitasi nel giudizio di merito deduce l’infondatezza degli assunti avversari. Inizia così lo scontro! Nulla da eccepire per i giudici chiamati a diramare la controversia. Sia la Commissione Tributaria Provinciale che la Commissione Tributaria Regionale annullavano la pretesa dell’ufficio.
La controversia prosegue in Cassazione dove i giudici della Suprema Corte hanno reso definitivo il verdetto dei giudici di merito.
Secondo la Suprema Corte, la sentenza gravata ha giustamente contestato l’operato dell’Amministrazione finanziaria. L’Agenzia delle Entrate non poteva escludere la detraibilità di un costo sicuramente sostenuto dalla società contribuente in mancanza di elementi dai quali potere sostenere che la prestazione fosse inesistente.
Al fine di soddisfare l’onere probatorio gravante sull’Amministrazione finanziaria, quest’ultima avrebbe dovuto addurre elementi a sostegno circa l’inesistenza dei costi portati in detrazione dalla società.
Una volta dimostrata l’inerenza dei costi, spetta all’Ufficio provare il contrario, non potendosi soltanto ipotizzare una antieconomicità, neppure dimostrata sulla base di presunzioni.
Per la Cassazione, contrariamente da quanto prospettato dall’Agenzia delle Entrate, non è possibile applicare direttamente e automaticamente i principi espressi in tema di imposizione diretta con riguardo al tema dell’antieconomicità all’interno dell’Iva, a ciò ostando la particolare natura del tributo da ultimo descritto, tutto correlato al principio di neutralità che si esprime attraverso il riconoscimento ad ogni fornitore o prestatore di servizio che ha corrisposto l’Iva per l’acquisto di beni o servizi di detrarre l’Iva relativa ai costi sostenuti secondo il noto meccanismo della detrazione.
Il sistema delle detrazioni, si legge ancora nella sentenza, è inteso ad esonerare interamente l’imprenditore dall’lva dovuta o pagata nell’ambito di tutte le sue attività economiche. Il sistema comune dell’Iva garantisce, in tal modo, la neutralità dell’imposizione fiscale per tutte le attività economiche, indipendentemente dallo scopo o dai risultati delle dette attività, purché queste siano, in linea di principio, di per sé soggette all’lva.
In condizioni normali non è consentito all’Amministrazione finanziaria di rideterminare il valore delle prestazioni e dei servizi acquistati dall’imprenditore escludendo il diritto a detrazione per le ipotesi in cui il valore dei beni e servizi sia ritenuto antieconomico e dunque diverso da quello da considerare normale o comunque sia tale da produrre un risultato antieconomico.
L’amministrazione finanziaria potrà operare tale rideterminazione solo quando la riscontrata antieconomicità rilevi quale indizio di non verità della fattura, nel senso di non verità dell’operazione, oppure di non verità del prezzo o, ancora, di non esistenza dell’inerenza e cioè della destinazione del bene o del servizio acquistati ad essere utilizzati per operazioni assoggettate ad Iva.
Antonino Salvaggio – Centro Studi CGN