La cessione del credito è un’operazione con la quale il creditore trasferisce ad un terzo la titolarità del suo diritto verso il debitore. La materia è disciplinata dall’art. 1260 C.C., secondo il quale “il creditore può trasferire a titolo oneroso o gratuito il proprio credito, anche senza il consenso del debitore, purché il credito non abbia carattere strettamente personale o il trasferimento non sia vietato dalla legge”. Esaminiamo gli aspetti civilistici, contabili e fiscali di tale operazione.
I crediti generalmente vengono ceduti ad un prezzo inferiore rispetto al valore nominale, e questo determina:
- una perdita in capo al cedente, il quale, tuttavia, evita di continuare a sostenere i costi operativi e le lungaggini legati al recupero dei crediti;
- un potenziale utile in capo al cessionario, che spesso è una società specializzata nella gestione dei crediti non performing (cioè crediti la cui riscossione è incerta sia nella scadenza che nell’ammontare). La società, infatti, procede all’incasso del credito dal debitore ceduto ad un valore di solito superiore a quello di acquisto, realizzando così un utile sui singoli crediti acquistati. Ovviamente sosterrà una perdita nel caso in cui non riesca ad incassare totalmente o parzialmente il credito di cui è diventata titolare.
La cessione del credito può essere effettuata:
- pro-soluto: il cedente non garantisce al cessionario la solvibilità del debitore, ma solo l’esistenza e la validità del credito. Il rischio di insolvenza, quindi, viene trasferito insieme al credito e il cessionario non può esercitare alcuna azione di regresso verso il cedente;
- pro-solvendo: il cedente risponde dell’eventuale insolvenza del debitore, quindi potrebbe subire una azione di regresso da parte del cessionario.
Esiste poi una terza forma di “cessione” del credito e cioè il mandato all’incasso: in questo caso usare il termine “cessione” è improprio, in quanto il cessionario si limita a curare la riscossione per conto del cedente, ma non diventa titolare del diritto di credito.
Come innanzi visto, il contratto di cessione di credito, ha lo scopo di trasferire il diritto di credito dal cedente al cessionario: non sorge quindi alcun nuovo rapporto obbligatorio, ma si verifica soltanto il mutamento del soggetto attivo del precedente negozio, nel senso che il cessionario subentra nella medesima posizione del cedente. Il titolo ed il contenuto della posizione debitoria rimangono inalterate, il debitore diviene semplicemente obbligato nei confronti del cessionario invece che del cedente, suo creditore originale.
Ai fini IVA, le operazioni di cessione di crediti pro-soluto o pro-solvendo sono considerate esenti IVA ex art.3 comma 2 n.3 (che va correlato all’art.10 n.1) del D.P.R.633/1972. Si tratta infatti di prestazioni di servizi aventi ad oggetto prestito di denaro a titolo oneroso, che comprende, oltre lo sconto di crediti e titoli di credito, tutte le operazioni aventi causa di finanziamento, incluse quelle attuate con cessione di credito.
Le operazioni di cessione di credito pro-soluto non aventi causa di finanziamento ma effettuate in conto pagamento di preesistenti obbligazioni, sono invece fuori campo IVA ex art.2 D.P.R. 633/1972.
Con riferimento al regime dell’IVA per cassa, disciplinata dall’art.32-bis del D.L. 83/2012, la cessione del credito non realizza il presupposto dell’esigibilità dell’imposta, come chiarito dalla circolare 1/E/2013. Questo significa che l’incasso del prezzo di cessione del credito non è in alcun modo assimilabile al pagamento del corrispettivo delle operazioni originarie. Il cedente, quindi, dovrà versare l’imposta relativa alle fatture che hanno generato crediti ceduti, solamente nel momento in cui il debitore pagherà effettivamente il corrispettivo al cessionario e non quando percepisce il corrispettivo della cessione del credito. Il cessionario, di conseguenza, dovrebbe aggiornare puntualmente il cedente dell’avvenuto incasso del credito ceduto, poiché è solo in questo momento che l’IVA relativa all’operazione diventa esigibile e deve essere versata. Nulla vieta che però, prudenzialmente, il cedente possa versare l’IVA relativa all’operazione originaria, direttamente nella liquidazione del periodo in cui è avvenuta la cessione medesima.
Per quanto gli aspetti contabili, bisogna fare un distinguo:
1) se la cessione è pro-soluto (e quindi il rischio di insolvenza viene trasferito al cessionario insieme al credito), i crediti andranno eliminati dal bilancio. La differenza tra il valore ricevuto e il valore cui erano iscritti in bilancio rappresenterà l’utile o la perdita conseguita dalla cessione. Quindi, a seconda dei casi, le scritture contabili potranno essere le seguenti:
a) conseguimento di una perdita (prezzo di cessione inferiore al valore di iscrizione in bilancio)
Esempio: ho un credito di 100 e lo cedo contro un corrispettivo di 80; la perdita, pertanto, ammonta a 20.
Naturalmente, in presenza di un precostituito fondo svalutazione crediti, si dovrà in primo luogo utilizzare detto fondo per la copertura delle perdite.
b) conseguimento di un utile (prezzo di cessione superiore al valore netto contabile del credito, cioè alla differenza tra il valore nominale del credito e il relativo fondo svalutazione).
Esempio: ho un credito di 100 e lo cedo ad 80; per il credito è acceso un fondo svalutazione crediti di 50; il valore netto contabile del credito ammonta quindi a 50 (100-50); realizzo una sopravvenienza attiva di 30 (80-50).
2) se la cessione è pro-solvendo (e quindi il rischio di insolvenza rimane in capo al cedente) i crediti non andranno eliminati dal bilancio, ma andranno sostituiti con l’ammontare dell’anticipazione ricevuta e col credito nei confronti del cessionario per la differenza tra il valore nominale del credito ceduto e l’anticipazione ricevuta (che sarà restituita dal cessionario al momento dell’incasso dal debitore ceduto). Sarebbe opportuno anche iscrivere un eventuale fondo rischi nel passivo dello stato patrimoniale. Nei conti d’ordine, infine, dovrà essere evidenziato il rischio di pregresso da parte del cessionario, fornendo, ove necessario, ulteriori informazioni in nota integrativa.
Anche sotto il profilo fiscale il trattamento è diverso a seconda del tipo di cessione di credito.
Abbiamo visto che generalmente la cessione avviene ad un prezzo inferiore al valore contabile del credito, e che questo determina una perdita in capo al cedente, data dalla differenza tra prezzo e valore contabile del credito.
In caso di cessione pro-solvendo, tale perdita non è deducibile, in quanto mancano i presupposti di certezza e definitività previsti dall’art.101 comma 5 del TUIR. Il cedente potrà dedurre la perdita su crediti solo nel momento in cui si verificano gli elementi certi e precisi derivanti dall’insolvenza del debitore.
Per le cessioni pro-soluto, ricordiamo, il rischio di insolvenza passa in capo al cessionario, per cui si può ritenere che la perdita in capo al cedente sia certa e definitiva: ciò nonostante l’Agenzia delle Entrate, con circolare 26/E/2013, condiziona la deducibilità della perdita alla circostanza che la cessione sia effettuata ad una banca o altro intermediario finanziario abilitato, residente in Italia o in paesi white list (che consentono cioè lo scambio di informazioni) e che siano “terzi” rispetto a creditore e debitore. In queste ipotesi, infatti, la valutazione del credito eseguita dall’istituto finanziario acquirente riflette con attendibilità l’ammontare effettivamente esigibile. La perdita da cessione di crediti, inoltre, rileva se di importo inferiore alle spese che si sarebbero sostenute per il recupero.
Rimane aperta però la questione relativa all’ipotesi di cessione a soggetti non finanziari, per la quale sembra confermata l’interpretazione restrittiva.
Patrizia Tomietto – Centro Studi CGN