Non può rientrare tra le cause legittime di scioglimento delle società di capitali il riscontro da parte degli amministratori dello stato di difficoltà economica dell’impresa. È quanto stabilito dal Consiglio Nazionale del Notariato, nello studio n. 237-2014/I, approvato dall’Area Scientifica-Studi d’Impresa il 9 luglio 2014 e dal CNN il 9 settembre 2014.
Analizzando il concetto di oggetto sociale è stato infatti precisato che esso diverge dallo scopo di lucro, dovendo piuttosto essere inteso, non come mezzo per produrre utili, ma come quella determinata attività (svolta o programmata) che la società svolge e non ha quindi nessun legame con la solvibilità o meno della società. Proprio per questo, il suo mancato conseguimento deve essere causato dall’impossibilità oggettiva, assoluta, irreversibile e definitiva e non già da un semplice impedimento temporaneo, come può essere appunto la crisi economica.
Tale impossibilità, nel caso di iscrizione dell’atto di scioglimento nel Registro delle imprese, deve essere rilevata d’ufficio dal Conservatore del Registro delle Imprese, rientrando nei suoi poteri ex art. 2189 Codice Civile il controllo di legalità formale, e comporta inoltre una responsabilità degli amministratori. Essi infatti risulterebbero responsabili direttamente e personalmente dell’abusivo accertamento della causa di scioglimento, trattandosi di un comportamento colposo o doloso.
Altro punto importante del dibattito a sostegno dell’illegittimità della sopravvenuta antieconomicità quale causa di scioglimento è la distinzione tra mancato conseguimento dell’oggetto sociale e fallimento. Il fallimento di una società non rientra nelle cause di scioglimento dettate dal sopracitato articolo 2484 co.1 del Codice Civile; esso infatti è previsto solo per le S.n.c. e le S.a.s. (art.2308 Codice Civile) ma non per le società di capitali.
L’insolvenza quindi, nonostante possa ritenersi la più grave tra le crisi dell’impresa, non appare di per sé sufficiente a provocarne lo scioglimento. Pertanto, ed è questo il punto, non appare di per sé sufficiente ad integrare altre ipotesi dissolutive, nemmeno, in particolare, quella consistente nell’impossibilità di conseguimento dell’oggetto sociale; ne deriva che l’oggetto sociale ben può essere “conseguito” anche da una società che versa in stato di insolvenza, e che, e per ciò solo non è in grado, almeno di regola, di distribuire utili.
A mio parere, tale interpretazione data dal Consiglio Nazionale del Notariato è corretta in quanto la crisi economica non deve diventare una giustificazione allo scioglimento di una società, poiché non si deve perdere di vista quello che è l’oggetto sociale, cioè l’esercizio economico che concretamente la società deve svolgere, anche in caso di insolvenza. Infatti il legislatore ha già previsto degli istituti (ad esempio gli accordi di ristrutturazione dei debiti previsti dall’art.182 bis L.F. o il concordato preventivo, agli artt. 160 e ss. L.F.) che, in tempi di difficoltà economica, possono aiutare la società a proseguire l’attività o altri istituti che possono portare allo scioglimento legittimo della società, come la dichiarazione di fallimento.
Giorgia Martin – Centro Studi CGN