La retribuzione è il corrispettivo riconosciuto al lavoratore subordinato per la prestazione da lui resa. Ma cosa significa retribuzione “a tempo”?
Il diritto alla retribuzione è costituzionalmente garantito dall’art. 36, il quale stabilisce che il lavoratore subordinato “ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro prestato e in ogni caso sufficiente a garantire a lui e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.
È nel riferimento al criterio della quantità di lavoro prestata, che risiede il senso dell’espressione retribuzione “a tempo” del lavoratore.
In effetti, la legge non dà una definizione univoca di retribuzione, né della modalità con cui essa può essere determinata. In via generale, secondo l’interpretazione giurisprudenziale, la retribuzione è costituita da tutto quanto il lavoratore riceve dal datore di lavoro in cambio della sua prestazione e a causa della sua personale soggezione nel rapporto di lavoro.
Relativamente alla sua determinazione, essa è pattuita “liberamente” tra le parti, pur nel rigoroso rispetto dei limiti minimi che, anche sulla base dell’art. 36 Cost. sopra citato, sono individuati nei valori della paga base e degli altri elementi economici obbligatori, fissati dai Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro.
È con riferimento alle forme con cui la retribuzione può essere riconosciuta, che la legge ne esprime (art. 2099 c.c.) la quantificazione “a tempo” o “a cottimo”.
La retribuzione “a cottimo” è relativa ad un criterio quantitativo oggi giorno per lo più limitato, (perché si riferisce principalmente alle ipotesi di cottimo collettivo ed ad un compenso unitario “per risultato”, moltiplicato per il numero di unità prodotte, in un lasso temporale) e deve, comunque, essere sempre aggiuntivo ai valori minimi stabiliti dalla Contrattazione Collettiva Nazionale di lavoro.
È, invece, nella definizione della retribuzione a tempo che si riflette il rapporto (più attuale) tra la retribuzione e la sua proporzione alla “quantità di lavoro prestato”.
In effetti, nella retribuzione “a tempo”, l’ammontare del trattamento economico riconosciuto al lavoratore non è vincolato ai risultati prodotti (nel senso – cottimo – più sopra visto), ma alla durata temporale della prestazione lavorativa. Nella retribuzione a tempo, la quantificazione del compenso del lavoratore è basata non sulla moltiplicazione tra un compenso unitario di risultato per il numero di unità prodotte, ma sulla moltiplicazione tra un compenso stabilito per unità di tempo (in genere, ora) e le unità di tempo di lavoro svolto.
Il criterio della retribuzione a tempo è, pertanto, fondato su una valutazione della media della quantità di lavoro svolto in una unità di tempo, da un lavoratore di normale capacità.
Proprio il criterio temporale è assunto a base, di norma, dalla Contrattazione Collettiva Nazionale del Lavoro, per la determinazione della retribuzione dei lavoratori della categoria cui il Contratto si riferisce.
Anche per consolidato orientamento della giurisprudenza, il principio costituzionale della retribuzione proporzionata alla quantità del lavoro prestato (oltre che alla qualità, collegata al livello di inquadramenti) è fatto salvo nel momento in cui il corrispettivo del lavoratore è individuato sulla base dei valori temporali pattuiti in sede di Contrattazione Collettiva.
In conclusione, giova ricordare come lo strumento di regolamentazione collettiva del rapporto di lavoro, quale appunto il CCNL, così come “delegato” anche dai principi costituzionali, è considerato a tutti gli effetti una fonte del diritto del lavoro: in sede di eventuale giudizio, l’applicazione delle sue previsioni costituisce il metro per verificare l’osservanza delle norme di legge, ivi incluso il rispetto del principio della retribuzione “proporzionata alla quantità di lavoro prestato”, qui considerato.
Stefano Carotti – Centro Studi CGN