Dal 1° luglio scatta il divieto di pagare le retribuzioni in contanti. Si tratta di una disposizione contenuta nell’ultima legge di bilancio (art. 1, commi 910-914, della l. n. 205/2017) che, secondo le intenzioni del legislatore, dovrebbe assicurare una maggiore effettività al diritto del lavoratore a una giusta retribuzione. L’argomento è stato oggetto della circolare n. 2/2018 dell’Ispettorato Nazionale del lavoro, che ha impartito le direttive agli organi periferici.
Le nuove disposizioni obbligano i datori di lavoro o committenti a corrispondere ai lavoratori la retribuzione e ogni suo anticipo attraverso una banca o un ufficio postale con uno dei seguenti mezzi:
- bonifico sul conto identificato dal codice Iban indicato dal lavoratore;
- strumenti di pagamento elettronico (dovrebbe trattarsi di tutte le forme che utilizzano sistemi informatici);
- emissione di un assegno consegnato direttamente al lavoratore o, in caso di suo comprovato impedimento, a un suo delegato.
L’impedimento s’intende comprovato quando il delegato a ricevere il pagamento è il coniuge, il convivente o un familiare, in linea retta o collaterale, del lavoratore, purché di età non inferiore a 16 anni.
Si tratta di un obbligo che prescinde da qualsivoglia soglia di riferimento e che punta a reprimere comportamenti elusivi da parte dei datori di lavoro. Il divieto di utilizzare i contanti ha effetto anche in caso di frazionamento della retribuzione in importi per frazione di mese.
La possibilità di corrispondere lo stipendio in contanti resta possibile esclusivamente se il pagamento avviene presso lo sportello bancario o postale dove il datore di lavoro è titolare di un conto corrente di tesoreria con mandato di pagamento.
Il divieto di pagamento dello stipendio a mezzo di denaro contante si applica ai rapporti di lavoro subordinato di cui all’art. 2094 del C.C. a prescindere dalle modalità di svolgimento della prestazione e dalla durata del rapporto. In tale ambito rientrano:
- contratti a tempo indeterminato;
- contratti a tempo determinato;
- contratti parziali, part time e di apprendistato;
- contratti di lavoro instaurati in qualsiasi forma dalle cooperative in base alla legge n. 142/2001;
- contratti di collaborazione coordinata e continuativa.
Restano esclusi dall’ambito di applicazione del divieto di pagamento in contanti:
- i rapporti di lavoro instaurati con le pubbliche amministrazioni;
- il lavoro domestico;
- i rapporti rientranti nell’ambito di applicazione dei contratti collettivi nazionali per gli addetti a servizi familiari e domestici.
Il tenore letterale della norma, facendo esplicito riferimento al termine retribuzione, escluderebbe ciò che retribuzione non è: i compensi derivanti da borse di studio, tirocini, rapporti autonomi di natura occasionale. Un altro punto da punto chiarire è la possibilità di continuare a corrispondere in contanti eventuali anticipi di cassa per sostenere, ad esempio, le spese inerenti l’attività lavorativa. Gli anticipi di cassa, non rappresentando elementi della retribuzione, ed essendo provati dai documenti giustificativi, non dovrebbero rientrare nell’obbligo della tracciabilità delle retribuzioni, pur osservando gli obblighi in materia di antiriciclaggio.
La firma apposta dal lavoratore sulla busta paga non costituisce prova dell’avvenuto pagamento della retribuzione. Ne deriva che la prova del pagamento dovrà essere fornita con altri mezzi (copia del bonifico e altre modalità tracciabili).
Ai datori di lavoro o committenti che violano il divieto di pagamento della retribuzione in denaro contante si applica la sanzione amministrativa pecuniaria consistente nel pagamento di una somma da euro 1.000 a euro 5.000. L’accertamento dell’illecito amministrativo spetta agli ufficiali e agli agenti di polizia giudiziaria, agli ispettori del lavoro, e dato che la violazione costituisce illecito economico-finanziario, rientrano tra i soggetti controllori anche la Guardia di finanza e i funzionari dell’Agenzia delle Entrate
Nicolò Cipriani – Centro Studi CGN