La rinuncia al diritto di usufrutto, per il fisco, è donazione indiretta perché genera arricchimento “nella sfera giuridica altrui”, (del nudo proprietario) e quindi va assoggettata all’imposta ipotecaria e catastale del 2%, ai sensi dell’art. 1 della Tariffa allegata al D.Lgs. n. 31 ottobre 1990, n. 347.
È quanto sancito dall’ordinanza n. 2252/2019 della Corte di cassazione avverso la sentenza n. 2992/22/2017 con cui la Commissione tributaria regionale della Lombardia aveva ricompreso l’atto di rinuncia all’usufrutto nel novero di un «atto abdicativo cui consegue l’estinzione del diritto e non il suo trasferimento».
I giudici della Suprema corte, invece, hanno concordato con la tesi dell’Agenzia delle entrate secondo cui la rinuncia all’usufrutto, ai sensi dell’art. 2, comma 47, del D.L. 3 ottobre 2006, n. 262, è annoverabile come un atto di “trasferimento”. La presente sentenza peraltro è conforme a precedenti pronunce (Cass. n. 27480/2016) che considerano la rinuncia “pura e semplice” come un trasferimento, “in quanto generativa di un arricchimento nella sfera giuridica altrui, come tale soggetta a imposta ipocatastale”.
In merito, anche l’Agenzia delle entrate aveva avuto modo di precisare, con la Risoluzione 16 febbraio 2007, n. 25 che “l’atto di rinuncia a titolo gratuito del diritto di usufrutto in favore del nudo proprietario, configurando una forma di donazione indiretta, è soggetto all’imposta prevista dal D.Lgs. 31 ottobre 1990, n. 346”.
L’imposizione di cui trattasi, invece, non opera quando il diritto di usufrutto si riunisce alla nuda proprietà nel caso di morte dell’usufruttuario o di scadenza del termine, ma non quando tale arricchimento deriva da un negozio giuridico.
Massimo D’Amico – Centro Studi CGN