Imprenditore che paga gli stipendi ma non l’IVA, pena per omesso versamento

L’imprenditore che decide di pagare gli stipendi ai propri dipendenti o i debiti contratti nei confronti dei propri fornitori ma non versa l’IVA all’Erario incorre nel reato di omesso versamento. È questo il principio con cui la Corte di cassazione, con la sentenza n. 50007 dell’11 dicembre 2019, ha stabilito che scatta il delitto di cui all’art. 10-ter d.lgs. 74/2000 (omesso versamento IVA).

Nel caso in esame, sostiene la Corte di cassazione, trattasi della “scelta di preservare la vita aziendale, un’omissione cosciente e volontaria e non una scelta obbligata” che, non costituendo una causa di forza maggiore, cioè un fatto imponderabile, imprevisto ed imprevedibile che esula del tutto dalla condotta del contribuente, non può escludere la responsabilità penale.

La vicenda

Il legale rappresentante di una società era stato condannato in appello, “per il delitto di cui all’art. 10-ter d.lgs. 74/2000 (omesso versamento IVA), perché in qualità di legale rappresentante della […], non versò l’imposta sul valore aggiunto, pari a [più di 300mila euro] dovuta in base alla dichiarazione annuale relativa all’anno d’imposta 2010, nel termine ultimo previsto per il relativo versamento dell’acconto, il 27 dicembre” dell’anno successivo a quello cui si riferisce l’imposta non versata.

Il contribuente ricorreva in Cassazione lamentando che la società era stata colpita da una crisi finanziaria. Da qui, la decisione dell’imprenditore di scegliere a quali debiti far fronte e di versare quindi gli stipendi ai lavoratori e il debito verso il principale fornitore, nell’auspicio della continuità aziendale.

La decisione della Cassazione

La Suprema Corte ha rilevato che dagli atti risultava che le somme percepite dalla società a titolo di IVA erano state destinate al pagamento degli stipendi e del citato fornitore principale.

Ora, il reato di cui trattasi, secondo quanto stabilito dai giudici, “è di natura omissiva e istantanea; è punibile a titolo di dolo generico e consiste nella coscienza e volontà di non versare all’Erario le somme dovute a titolo di IVA del periodo considerato. La prova del dolo è insita nella presentazione della dichiarazione annuale, dalla quale emerge quanto è dovuto a titolo di imposta, e che deve, quindi, essere saldato entro il termine” per il versamento dell’acconto relativo all’anno successivo.

Secondo quanto indicato nella sentenza infatti, “per la sussistenza del reato citato non è necessario il fine di evasione”; peraltro, l’esimente “della forza maggiore ex art. 45 cod. pen. sussiste in tutti i casi nei quali l’agente abbia fatto quanto era in suo potere per uniformarsi alla legge e che per cause indipendenti dalla sua volontà non vi era la possibilità di impedire l’evento o la condotta antigiuridica. Pertanto, la forza maggiore non può che riferirsi ad un avvenimento imponderabile che annulla la signoria del soggetto sui propri comportamenti, impedendo di configurare un’azione penalmente rilevante per difetto del generale requisito della coscienza e volontarietà della condotta previsto dal primo comma dell’art. 42 cod. pen.

La forza maggiore sussiste solo e in tutti quei casi in cui la condotta antigiuridica è dovuta all’assoluta e incolpevole impossibilità del contribuente di uniformarsi alla legge, mai quando egli si trovi già in condizioni di illegittimità. Poiché la forza maggiore postula la individuazione di un fatto imponderabile, imprevisto ed imprevedibile, che esula del tutto dalla condotta del contribuente, la Corte di Cassazione ha sempre escluso che le difficoltà economiche in cui versa il contribuente possano integrare la forza maggiore penalmente rilevante”.

In altre parole, secondo i giudici di legittimità “il reato di omesso versamento IVA è integrato dalla scelta consapevole di omettere i versamenti dovuti, non rilevando la circostanza che la società attraversi una fase di criticità e destini risorse finanziarie per far fronte al pagamento di debiti ritenuti più urgenti, elemento che rientra nell’ordinario rischio di impresa e che non può certamente comportare l’inadempimento dell’obbligazione fiscale contratta con l’erario”.

Infine, secondo la Suprema corte, la crisi aziendale risalirebbe al 2008, quindi non era affatto un evento imprevisto ed imprevedibile nel 2010 e nel 2011, anni in cui è maturato il debito IVA e in cui scadeva il termine lungo per il pagamento. In materia di IVA, inoltre, si legge nella sentenza, poiché il debito d’imposta è riferibile a operazioni fatturate e a somme già riscosse, l’imprenditore era tenuto ad accantonare e versare l’IVA incassata anche eventualmente facendo ricorso al credito bancario.

In conclusione, poiché la crisi aziendale risaliva ad anni pregressi ed era quindi prevedibile, la Corte di cassazione ha ritenuto che manchino i requisiti dell’imprevedibilità tipici della forza maggiore e che quindi la conferma della responsabilità penale a carico dell’imprenditore sia inevitabile, poiché risultato della scelta dell’imprenditore di orientare il pagamento verso creditori diversi dall’Erario.

Massimo D’Amico – Centro Studi CGN