La Corte di Cassazione, con l’Ordinanza n. 28560 del 18/10/2021, ha chiarito alcuni rilevanti profili in tema di cancellazione dal sistema Vies.
Nella specie, la società contribuente aveva impugnato il provvedimento con cui l’Agenzia delle Entrate aveva disposto la revoca dell’autorizzazione ad una società ad effettuare operazioni intracomunitarie e, dunque, la sua cancellazione dal sistema elettronico di scambio di dati sull’IVA (cosiddetto VIES, VAT information exchange system, banca dati dei soggetti passivi che effettuano operazioni intracomunitarie, prevista dall’art. 17 del Regolamento (CE) n. 904/2010 del Consiglio del 7 ottobre 2010).
La Commissione Tributaria Provinciale respingeva il ricorso della società, mentre la Commissione Tributaria Regionale ne accoglieva l’appello, dichiarando la nullità della revoca dell’autorizzazione.
In particolare, il giudice di secondo grado osservava che la motivazione del provvedimento di revoca non faceva riferimento alle operazioni commerciali con società estere non iscritte al VIES (circostanza emersa soltanto nel giudizio e sulla quale la decisione di primo grado era basata) e dunque non era adeguatamente motivato.
Avverso tale decisione l’Agenzia delle Entrate proponeva infine ricorso per cassazione, deducendo, per quanto di interesse, la violazione dell’art. 35, comma 15-quater, Dpr. n. 633 del 1972, come integrato dal provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate prot. n. 2010/188376 del 29/12/2010, per avere la CTR considerato inidonea a sorreggere il provvedimento di revoca la motivazione addotta, con riguardo alla «presenza di elementi di rischio relativi all’attività esercitata», i quali erano poi stati compiutamente illustrati nel corso del giudizio.
Secondo la Suprema Corte la censura era fondata.
Evidenziano i giudici di legittimità che, adeguando l’ordinamento alla normativa europea in materia di operazioni intracomunitarie ai fini del contrasto delle frodi, l’art. 27 del Dl. 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla Legge 30 luglio 2010, n. 122, intervenendo sull’art. 35 Dpr. n. 633 del 1972, ha istituito l’obbligo di iscrizione alla banca dati dei soggetti passivi che effettuano operazioni intracomunitarie (VAT information exchange system, altrimenti detta VIES).
In particolare, il menzionato art. 35 (nella formulazione ratione temporis applicabile) prevedeva che «Con provvedimento del direttore dell’Agenzia delle Entrate sono stabilite le modalità di diniego o revoca dell’autorizzazione di cui al comma 7-bis» (comma 7-ter) e che «Ai fini del contrasto alle frodi sull’IVA intracomunitaria, con provvedimento del direttore dell’Agenzia delle Entrate sono stabiliti i criteri e le modalità di inclusione delle partite IVA nella banca dati dei soggetti passivi che effettuano operazioni intracomunitarie» (comma 15-quater).
In attuazione del disposto legislativo, il Direttore dell’Agenzia delle Entrate aveva dunque emanato il Provvedimento prot. n. 2010/188376 del 29/12/2010, che contiene (tra l’altro) la disciplina dei presupposti per la revoca dell’autorizzazione all’effettuazione di operazioni intracomunitarie, la quale comporta «la esclusione dall’archivio dei soggetti autorizzati alle operazioni intracomunitarie con effetto dalla data di emissione» (punto 6).
Nello specifico, il punto 2.2. del citato Provvedimento prevede che l’esclusione dall’archivio dei soggetti autorizzati alle operazioni intracomunitarie sia «subordinata ad una ulteriore valutazione della posizione del contribuente, fondata su … altri elementi a disposizione dell’Amministrazione finanziaria rappresentativi di criticità e di rischio», per l’appunto indicati anche nel provvedimento impugnato.
Nel corso del giudizio di primo grado l’Agenzia delle Entrate aveva poi spiegato che gli elementi di rischio indicati nel provvedimento erano costituiti dall’effettuazione di operazioni intracomunitarie con società polacche non iscritte nel VIES e, dunque, potenzialmente pregiudizievoli per l’Erario.
La CTR, tuttavia, come detto, aveva reputato insufficiente la motivazione originaria del provvedimento, affermando che solo nel giudizio l’Agenzia aveva individuato gli elementi di rischio in «condotte, dettagliate negli atti del processo con dovizia di particolari, importi, date nonché documentate attualmente e finanziariamente».
Il giudice d’appello aveva dunque, in sostanza, ritenuto inammissibile la motivazione “postuma” del provvedimento dell’Agenzia, situazione che si verifica quando l’Amministrazione colma ex post – e, cioè, in giudizio – le lacune dell’atto caratterizzato da un’insufficiente esposizione delle ragioni su cui si fonda.
Quanto all’obbligo di motivazione dei provvedimenti in materia tributaria e, segnatamente, del provvedimento di revoca dell’autorizzazione ad effettuare operazioni intracomunitarie e di cancellazione dal VIES, la Corte di Cassazione, anche alla luce della giurisprudenza del Giudice Amministrativo, rileva che il principio del divieto di integrazione postuma della motivazione non è assoluto e perentorio e che le sue conseguenze debbono essere attenuate nei casi in cui la successiva esternazione di una compiuta motivazione non abbia leso il diritto di difesa dell’interessato, o comunque nei casi in cui, in fase infraprocedimentale, risultano percepibili le ragioni sottese all’emissione del provvedimento gravato (cfr., Cons. Stato, Sez. IV, Sentenza n. 1018 del 4/3/2014).
La Suprema Corte sottolinea quindi come si debba distinguere l’integrazione di un provvedimento privo di motivazione (per tale ragione invalido) dall’illustrazione e dimostrazione di quanto già indicato in un atto, che – pur contenendo una succinta esposizione dei motivi (sufficiente a consentire l’esercizio del diritto di difesa) – non li indichi espressamente, laddove, in tale ultimo caso, “il vizio riscontrabile è un vizio solo formale” (cfr., Consiglio di Stato, Sentenza n. 4194/2013, richiamata da Cass., Sez. U, Sentenza n. 9282 del 9/5/2016).
In conclusione, un conto è l’invalidità (insanabile nel corso del giudizio) di un provvedimento del tutto immotivato, e un altro è l’insufficienza (o carenza) della motivazione dell’atto, che, pur omettendo di esplicitare tutti i suoi presupposti, contenga comunque sufficienti elementi per rendere edotto il destinatario delle sue ragioni, assicurandogli il diritto di difesa.
In conclusione, la Cassazione applica alla fattispecie in esame il seguente principio di diritto «In tema di obbligo di motivazione degli atti dell’amministrazione finanziaria ai sensi dell’art. 7, comma 1, primo periodo, della Legge n. 212 del 2000, è ammessa nel corso del giudizio tributario l’integrazione dei presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche che hanno determinato una decisione dell’amministrazione succintamente motivata, qualora la successiva esternazione di una compiuta motivazione non abbia leso il diritto di difesa dell’interessato o quando i fondamenti del provvedimento poi impugnato fossero già percepibili, in base al principio di leale collaborazione tra privato e p.a., nella fase endoprocedimentale».
Giovambattista Palumbo