La Corte di Cassazione, Sez. Penale, con la sentenza n. 43913 del 29.11.2021, si è pronunciata sul sempre caldo tema della esimente dal reato di omesso versamento Iva, in caso di carenza di liquidità dell’imprenditore.
Nel caso di specie, tra le altre, la Corte di Appello, in parziale riforma della pronuncia del Tribunale, per una delle annualità coinvolte, aveva dichiarato non doversi procedere nei confronti dell’imputato per il reato a lui ascritto, ex art. 10-ter D.lgs. 74/2000, nella qualità di legale rappresentante della società. Per le altre annualità aveva rideterminato la pena inflitta.
Avverso tale sentenza l’imputato proponeva ricorso per cassazione, deducendo, per quanto di interesse, vizi di violazione di legge e della motivazione sulla sua ritenuta responsabilità.
La Corte di Appello, a suo avviso, non aveva infatti risposto ai motivi già dedotti sull’assenza del dolo per la crisi che aveva investito l’impresa e sulla storia della società, sulla genesi e le cause della crisi, oltre che sulle iniziative intraprese dall’imputato per fronteggiarla.
In particolare, secondo il ricorrente, il giudice di secondo grado non aveva esaminato i documenti e le testimonianze sul suo effettivo apporto per evitare la crisi societaria, sull’assenza di volontà di sottrarsi al pagamento dell’Iva, e su quanto intrapreso dallo stesso imputato per evitare il dissesto della società.
Tutte condotte antecedenti alla scadenza del termine per il pagamento dell’Iva e non tardive, come invece indicato dalla Corte di appello.
Nel caso di specie, pertanto, secondo il ricorrente, erano applicabili i principi elaborati dalla giurisprudenza per ritenere esistente il costringimento inevitabile, o comunque uno stato di necessità idoneo ad escludere la volontà di non adempiere.
Secondo la Suprema Corte il ricorso era fondato.
Evidenziano i giudici di legittimità che dalla motivazione della sentenza di primo grado risultava che il Tribunale aveva aderito alla tesi per cui, nei casi di omesso versamento dell’Iva, la crisi di liquidità può assurgere a forza maggiore solo se l’imputato dimostri che le difficoltà finanziarie siano a lui non imputabili e che non possano essere fronteggiate con idonee misure, anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale.
Il Tribunale aveva dunque ritenuto che l’imputato avesse provato che la crisi finanziaria era dipesa da fattori estranei al suo comportamento, ma che lo stesso non aveva comunque provato di essersi efficacemente attivato per reperire le risorse necessarie a consentirgli il corretto e puntuale adempimento delle obbligazioni tributarie, attingendo anche al suo patrimonio personale, ritenendo insufficiente la rinuncia ai crediti nei confronti della società e gli sforzi di ricapitalizzazione effettuati, perché mai indirizzati a consentire il pagamento dei debiti tributari.
Rilevava la Suprema Corte poi che, in sede di appello, l’imputato aveva eccepito che, diversamente da quanto rappresentato dal Tribunale, egli aveva intrapreso tutte le azioni necessarie per cercare di evitare il dissesto finanziario; e che, ciononostante, non era però riuscito ad evitare la crisi finanziaria, laddove, dunque, l’omesso versamento dell’IVA nei termini di legge era stato un atto inevitabile.
Lo stesso imputato aveva del resto affermato di aver assolto agli obblighi di allegazione dei documenti che comprovavano la non imputabilità al contribuente della crisi economica che aveva improvvisamente investito l’azienda, specificando altresì che la circostanza non avrebbe potuto essere fronteggiata altrimenti.
Tanto premesso la Cassazione evidenzia come, in effetti ,la Corte territoriale non aveva risposto a tali osservazioni, laddove la motivazione si fondava solo sulla postergazione dei crediti nel concordato preventivo, mentre la questione dedotta concerneva il travisamento della prova per omissione di documenti e delle prove orali attestanti il reperimento di risorse finanziarie.
Si imponeva pertanto, secondo i giudici di Cassazione, l’annullamento della sentenza impugnata, con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di Appello.
A prescindere dallo specifico caso processuale, sul tema della esimente da “crisi di liquidità” possiamo anche evidenziare quanto segue.
L’art. 10-ter Dlgs. 74/2000 prevede come reato il fatto di chi non versa l’imposta sul valore aggiunto, dovuta in base alla dichiarazione annuale, entro il termine per il versamento dell’acconto relativo al periodo di imposta successivo.
Il delitto in esame è dunque un reato omissivo ed istantaneo, nel senso che ciò che rileva è solo l’indicazione nella dichiarazione di un debito d’imposta e l’inadempimento alla conseguente e corrispondente obbligazione di pagamento.
Del resto, il Dpr. 26 ottobre 1972, n. 633, prevede degli specifici obblighi per il contribuente (art. 21 e ss.), dai quali emerge che il soggetto obbligato, già all’atto del compimento dell’operazione economica, conosce quanto è poi dovuto a titolo di Iva. E sono dunque irrilevanti, ai fini della configurabilità del reato, sia l’effettiva riscossione delle somme-corrispettivo relative alle prestazioni effettuate (tranne i casi di applicabilità del regime di «Iva per cassa», cfr. Cass., n. 6220 del 23/01/2018), sia le condotte successive dell’obbligato, stante la natura del reato, che è, come detto, a consumazione istantanea.
Il delitto è inoltre punibile a titolo di dolo generico, che consiste nella coscienza e volontà di non versare all’Erario le somme dovute, laddove la prova del dolo è insita nella presentazione della dichiarazione annuale, anche considerato che ogni qualvolta il soggetto d’imposta effettua tali operazioni riscuote già (dall’acquirente del bene o del servizio) l’IVA dovuta e dovrebbe, quindi, tenerla accantonata per l’Erario, al fine di poter adempiere l’obbligazione tributaria.
E, quindi, la scelta di non pagare l’imposta prova il dolo; soprattutto quando risulti che, al contempo, si siano pagati altri debiti, o che le somme che avrebbero dovuto essere accantonate sono state comunque impiegate in altro (cfr., Cass., n. 43599 del 09/09/2015).
Esiste tuttavia un orientamento della giurisprudenza (nel quale rientra anche la pronuncia in commento) per cui, in caso di stato di difficoltà o di crisi finanziaria dell’impresa, al fine della dimostrazione della “assoluta impossibilità” di provvedere ai pagamenti omessi, l’imputato può provare la non addebitabilità della crisi economica che ha investito l’impresa stessa e la impossibilità di fronteggiare la crisi di liquidità che ne è conseguita tramite il ricorso a misure idonee, da valutarsi in concreto (cfr., Cass., n. 20266 del 08/04/2014; n. 8352 del 24/06/2014; n. 16035 del 10/10/2018).
In sostanza, l’imputato dovrà provare di non essere stato in grado di reperire le necessarie risorse per l’adempimento dell’obbligo tributario, nonostante abbia posto in essere tutte le possibili azioni, anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale, dirette a consentirgli di recuperare, in presenza di un’improvvisa crisi di liquidità, le somme necessarie.
Giovambattista Palumbo