Per la valutazione di un’azienda è necessario far riferimento al valore complessivo del compendio aziendale dove si rileva anche l’avviamento, inteso quale “attitudine di un’azienda a produrre utili” ossia come qualità dell’azienda stessa. Per la determinazione del suo valore intervengono molteplici fattori e pertanto le prassi aziendalistiche di valutazione possono seguire diverse metodologie (patrimoniale, reddituale, finanziario, misto).
In sede di accertamento fiscale, invece, all’amministrazione finanziaria è consentito valutare l’avviamento attraverso l’uso del metodo previsto dall’articolo 2, comma 4, DPR 460/1996, benché abrogato dal DL 218/1997, costruito “sulla base degli elementi desunti dagli studi di settore o, in difetto, sulla base della percentuale di redditività applicata alla media dei ricavi accertati o, in mancanza, dichiarati ai fini delle imposte sui redditi negli ultimi tre periodi d’imposta anteriori a quello in cui è intervenuto il trasferimento, moltiplicata per 3” (cfr. circolare n. 10/93/13876 del 5 aprile 1993, e nota interna delle Entrate n. 52 del 25 luglio 2003).
Si tratta di un procedimento matematico ritenuto legittimo dalla giurisprudenza che “rimane valido sul piano indicativo per quanto riguarda i parametri di riferimento lasciando al contribuente l’onere di dimostrare, ove lo ritenga, applicando parametri diversi da quelli previsti dal Decreto del Presidente della Repubblica n. 460 citato, un valore di avviamento inferiore a quello indicato. In tal modo si determina un valore minimo di avviamento, in funzione dell’accertamento con adesione, sicché la loro applicazione integra un indizio a favore dell’Amministrazione (Cass. n. 9098 del 2017). In linea di principio, l’utilizzo da parte dell’Ufficio accertatore di tale approccio metodologico è legittimo e, peraltro, i criteri ivi fissati per la determinazione del valore di avviamento di un’azienda “non sono obbligatori e vincolati per l’amministrazione finanziaria, la quale può adottare criteri diversi se ritenuti più congrui, alla sola condizione che dia conto della maggiore affidabilità del criterio prescelto” (Cass. n. 4931 del 2012 e n. 15396 del 2021).
Secondo l’art. 2, comma 4, DPR 460/1996, per le aziende e per i diritti reali su di essa il valore di avviamento è determinato:
- sulla base degli elementi desunti dagli studi di settore o, in difetto, sulla base della percentuale di redditività applicata alla media dei ricavi accertati o, in mancanza, dichiarati ai fini delle imposte sui redditi negli ultimi 3 periodi d’imposta anteriori a quello in cui è intervenuto il trasferimento, moltiplicata per 3;
- la percentuale di redditività non può essere inferiore al rapporto tra il reddito d’impresa e i ricavi accertati o, in mancanza, dichiarati ai fini delle stesse imposte nel “medesimo periodo”. Il moltiplicatore è ridotto a 2 nel caso in cui emergano elementi validamente documentati.
È possibile ridurre il moltiplicatore a 2 quando emergano elementi validamente documentati nel caso in cui ricorra almeno una delle seguenti situazioni:
- l’attività sia stata iniziata entro i 3 periodi d’imposta precedenti a quello in cui è intervenuto il trasferimento;
- l’attività non sia stata esercitata, nell’ultimo periodo precedente a quello in cui è intervenuto il trasferimento, per almeno la metà del normale periodo di svolgimento dell’attività stessa;
- la durata residua del contratto di locazione dei locali, nei quali è svolta l’attività, sia inferiore a 12 mesi.
Si propone un esempio di determinazione del valore di avviamento applicando i criteri su esposti.
Si ritiene che per “medesimo periodo” debba essere inteso il triennio precedente alla cessione, in quanto se dovessimo considerare il calcolo della redditività (reddito/ricavi) nel periodo in corso, tale calcolo non sarebbe possibile in quanto sarebbe necessaria la conclusione dell’annualità nonché la definizione dei risultati finali in dichiarazione dei redditi.
Nicolò Cipriani – Centro Studi CGN