Nullità o annullabilità degli atti impositivi

La riforma ha introdotto (finalmente) due concetti da sempre mutuati dalla giustizia amministrativa: quelli di nullità o annullabilità degli atti impositivi. Si tratta però di ipotesi differenti tra loro, per le quali cambia anche la difesa del contribuente. La recente riforma dello statuto del contribuente ha introdotto alcune modifiche che dovrebbero (il condizionale è d’obbligo) impattare sulla validità degli atti.

In particolare, sono state disciplinate le ipotesi di annullabilità, nullità dei provvedimenti e di inutilizzabilità delle prove acquisite in violazione a norme di legge.

A seconda del vizio, però, occorre considerare una diversa difesa: la nullità sussiste in radice e pertanto può essere rilevata in ogni stato e grado del procedimento.

L’annullabilità, invece, va rilevata dal giudice con la conseguenza che il contribuente deve sollevarla con il proprio ricorso. Per tale ragione, diviene fondamentale in primo luogo individuare la violazione contenuta nell’atto e secondariamente eccepire un adeguato motivo di impugnazione.

In tale contesto, peraltro, il legislatore ha indirettamente disciplinato anche tutte le ipotesi di “nullità” già presenti nell’ordinamento, prevedendone l’equiparazione alla “annullabilità”.

Sebbene da un lato appare più definito il perimetro, occorre anche considerare che soprattutto per il caso della annullabilità, le ragioni possono essere le più diverse con la conseguenza che sia necessaria un’attenta valutazione preliminare.

Si pensi ad esempio alla più nota ipotesi della decadenza, anche alla luce della annosa questione delle proroghe Covid: da sempre la giurisprudenza ha qualificato l’istituto della decadenza quale garanzia in favore del contribuente e pertanto una causa di annullabilità (e non di nullità). A tal fine, quindi, occorre verificare la norma, la modalità di notifica dell’atto e la data, così da considerare se il vizio possa sussistere.

Analoghe considerazioni possono riguardare la formalità della firma da parte del funzionario, l’apposizione del codice QR sull’atto, le notifiche ai soggetti effettivi responsabili di imposta, il rispetto del contraddittorio, ecc.

A tali possibili vizi se ne affiancano poi alcuni che si potrebbero definire più sostanziali, legati cioè alla chiarezza della motivazione, alla validità delle prove a sostegno della pretesa, alla sussistenza del presupposto impositivo.

Purtroppo a complicare tali valutazioni preliminari sovviene spesso la giurisprudenza: di regola, infatti, per ogni questione “dubbia” sussistono due orientamenti contrapposti che ovviamente saranno utilizzati a proprio favore (in un senso e nell’altro) dalle parti processuali.

Questo articolato quadro deve poi confrontarsi con valutazioni di carattere squisitamente economico: il contribuente, infatti, è certamente la parte più gravata dagli oneri del contenzioso, diversamente dalla parte pubblica. A ciò poi si aggiunga che per qualche ignota ragione, i giudici tributari hanno la tendenza di “compensare” le spese, lasciando così indenne l’Ufficio anche quando ha commesso evidenti errori. Occorre poi considerare che il giudizio nella stragrande maggioranza dei casi, prosegue fino in Cassazione ed anche oltre (riassunzione in seguito a rinvio e nuovo giudizio in Cassazione). Comunque, dal profilo economico, l’interessato deve anche valutare che in caso di soccombenza sono dovute le sanzioni in misura piena, da aggiungere ovviamente alle imposte ed interessi.

Sembra pertanto evidente che l’impugnazione di un atto tributario, oltre ad avere un esito tutt’altro che scontato, comporti valutazioni particolarmente complesse. In tale contesto, sia consentita una riflessione: mal si comprende perché simili considerazioni non vengano svolte anche dai funzionari prima di emettere l’atto impositivo o quanto meno nella fase del contraddittorio. Alla luce del tanto decantato rapporto fisco-contribuente, infatti, se le contestazioni fossero valutate con serena obiettività, forse si eviterebbero complicazioni che nulla hanno a che vedere con la vera evasione e magari ci sarebbero risorse disponibili a recuperare reali somme sottratte a tassazione.

 

Laura Ambrosi
Dott.ssa Commercialista – Studio Di Tanno e Associati