Come si determina il compenso in caso di attività non protette

Nelle attività professionali non protette il lavoro svolto dal mandatario non impone l’applicazione delle tariffe. Compenso professionale ridotto, quindi, a chi offre consulenza professionale senza essere iscritto all’ordine.

È questa la conclusione a cui è giunta la Terza Sezione Civile della Corte di Cassazione con la sentenza n. 9741 del 22 aprile 2013.

La Cassazione ha rigettato il ricorso proposto da una consulente ligure che si era rivolta alla Suprema Corte, ritenendo inadeguato il compenso di un cliente per l’attività svolta di amministratore di un consistente numero di beni (14 appartamenti ed esercizi commerciali, titoli e denaro).

In buona sostanza, la consulente che aveva agito dietro mandato con rappresentanza, sottolineava l’esiguità del compenso in relazione alla qualità e alla quantità della prestazione eseguita.

In particolare la ricorrente lamentava la violazione e la falsa applicazione dell’articolo 1709 del codice civile e delle disposizioni relative all’ordinamento delle professioni di dottore commercialista, ragioniere e perito commerciale (dd.P.R nn. 600/1973 e 1069/1953), nonché un difetto di motivazione sul punto che la Corte di merito non aveva fatto applicazione delle relative tariffe professionali per il computo del compenso dovuto, quale mandataria, per l’attività professionale svolta.

A sostegno della propria tesi, la consulente invoca le sentenze della Corte Costituzionale n. 418/1996 e la sentenza della Cassazione Civile n. 12154/94.

La Corte di Cassazione non ha fatto altro che confermare le decisioni di primo e secondo grado di giudizio, ribadendo che la prestazione professionale non protetta resa dal non professionista è caratterizzata da un minor valore poiché carente della spendita, a beneficio del committente, della competenza ed esperienza del professionista.

Enuncia così il seguente principio di diritto: “per le attività professionali non protette svolte dal mandatario non professionista, l’art. 1709 c.c. non impone che il compenso sia determinato nella stessa misura prevista, per il professionista, dalle tariffe professionali”.

Ai fini della determinazione del compenso del mandatario, il ricorso all’equità postula e soddisfa proprio l’esigenza di correlazione tra la prestazione ed il compenso, mentre è escluso che la disciplina del mandato sia riconducibile a quella del contratto d’opera, per il quale, invece, l’articolo 2225 C.C. espressamente prevede che il corrispettivo sia determinato anche in considerazione del risultato ottenuto.

Nessuna delle due sentenze citate dalla ricorrente (Corte Costituzionale n. 418/1996 e  Cassazione Civile n. 12154/94) suffraga però l’assunto della ricorrente, in quanto, la prima  afferma che al di fuori delle attività comportanti prestazioni che possono essere fornite solo da soggetti iscritti ad albi o provvisti di specifica abilitazione (iscrizione o abilitazione prevista per legge come condizione di esercizio), per tutte le altre attività di professione intellettuale o per tutte le altre prestazioni di assistenza o consulenza (che non si risolvano in una attività di professione protetta ed attribuita in via esclusiva, quale assistenza in giudizio), vige il principio generale di libertà di lavoro autonomo o di libertà di impresa di servizi a seconda del contenuto delle prestazioni e della relativa organizzazione (salvi gli oneri amministrativi o tributari). Pertanto, anche se il non abilitato può svolgere attività non protetta, ciò non significa affatto che, se la svolge, la retribuzione debba essere quella prevista per il professionista abilitato.

La seconda sentenza ha invece affermato che per il disposto dell’articolo 63 del DPR 29 settembre 1973 n. 600, dettato con riferimento alla materia dei tributi erariali diretti, ma di applicazione generale nel settore del diritto tributario, l’attività extraprocessuale di rappresentanza e di assistenza del contribuente davanti agli uffici finanziari è liberamente esercitabile, senza necessità di una qualificazione professionale.  Deve ammettersi la normale retribuibilità dell’attività anzidetta prestata per incarico del contribuente, indipendentemente dalla iscrizione in un albo professionale, ma in riferimento ad un caso nel quale il compenso era stato concordato dalle parti e non già richiesto in misura corrispondente a quanto previsto dalle tariffe professionali.

Nulla da fare quindi per la consulente che si trova rigettato il ricorso e condannata a rifondare le spese oltre agli oneri accessori.

Antonino Salvaggio – Centro Studi CGN

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