La finalità principale della certificazione del contratto di lavoro risiede proprio nel tentativo di ridurre al minimo il contenzioso in materia di lavoro attraverso l’incentivazione della definizione stragiudiziale delle controversie, evitando così il ricorso alla magistratura ordinaria. Vediamo quali sono le principali conseguenze della certificazione per datore di lavoro e lavoratore.
Attraverso la certificazione del contratto di lavoro è possibile per le parti contraenti richiedere ad una commissione appositamente costituita presso gli organi individuati dall’art. 76, D.Lgs. n. 276/2003 (enti bilaterali, D.T.L., consigli provinciali dei consulenti del lavoro, università) l’attestazione della rispondenza ai dettami di legge del contratto di lavoro che andranno a concludere o che è già in corso di esecuzione.
Una volta verificata la regolarità del rapporto, l’ente adito emette l’atto di certificazione, il quale è idoneo ad esplicare molteplici effetti tra i quali, uno dei principali, è senza dubbio quello di far sì che il contratto certificato resista all’accertamento ispettivo.
Infatti, la qualificazione del rapporto contenuta nella certificazione non può essere contestata dagli organi di vigilanza e permane fino ad una eventuale sentenza di senso contrario, salvo comunque il caso in cui venga accertata una notevole discrepanza tra contratto certificato e quanto concretamente rilevato.
La certificazione, dunque, non preclude l’attività di vigilanza, ma impedisce l’adozione di provvedimenti ispettivi che presuppongono una qualificazione diversa rispetto a quella risultante dalla certificazione stessa.
Altra rilevante conseguenza derivante della certificazione è quella prevista dal comma 4, art. 80, D.Lgs. n. 276/2003, secondo il quale “chiunque presenti ricorso giurisdizionale contro la certificazione […] deve previamente rivolgersi obbligatoriamente alla commissione di certificazione che ha adottato l’atto di certificazione per espletare un tentativo di conciliazione ai sensi dell’articolo 410 del codice di procedura civile”.
Pertanto, prima di poter procedere legittimamente dinanzi al giudice, le parti stipulanti il contratto certificato devono necessariamente esperire un tentativo di conciliazione dinanzi lo stesso organo che ha certificato il contratto.
Importanti novità riguardanti gli effetti che è possibile ottenere attraverso la certificazione sono state introdotte dall’intervento riformatore del Jobs Act (con particolare riferimento in questa sede al D. Lgs. n. 81/2015).
Innanzitutto, l’art. 2 del citato Decreto prevede che, a far data dal 1° gennaio 2016, si applichi la disciplina del lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione caratterizzati da prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione siano organizzate dal committente, anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro.
La disposizione appena citata non trova applicazione nei confronti di alcune categorie specificamente individuate dal medesimo testo (professioni ordinistiche, collaborazioni con amministratori di società, ulteriori ipotesi disciplinate dai CCNL) dove, in ragione del particolare contenuto professionale della prestazione, il rapporto di collaborazione si presume genuino.
Al di fuori dei casi da ultimo menzionati – dove opera ipso iure una presunzione di legittimità -, la legge ammette la possibilità per le parti di ricorrere alla certificazione al fine di far attestare l’assenza delle criticità più sopra evidenziate (personalità, continuatività ed eterodirezione) e, quindi, la correttezza del contratto di collaborazione.
Altra ipotesi in cui è riconosciuta alle parti la facoltà di adire una commissione di certificazione è disciplinata dal “nuovo” art. 2103 cod. civ., integralmente riscritto dal Jobs Act.
La citata disposizione codicistica – così come risultante a seguito dell’intervento del D.Lgs. n. 81/2015 -, prevede l’obbligo per il datore di lavoro di adibire il lavoratore alle mansioni per le quali questi è stato assunto, ovvero a mansioni corrispondenti allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte.
Nel caso in cui il datore di lavoro proceda ad una modifica degli assetti organizzativi tale da incidere sulla posizione del lavoratore, la legge riconosce la possibilità per il datore stesso di assegnare il dipendente a mansioni appartenenti ad un livello di inquadramento inferiore, ancorché rientranti nella medesima categoria legale, facendo comunque salvo il livello retributivo di provenienza.
Quello che in questa sede rileva particolarmente, però, riguarda l’ulteriore possibilità riconosciuta al datore di lavoro e al lavoratore di stipulare un accordo individuale di modifica delle mansioni, ovvero della categoria legale, del livello di inquadramento e del relativo trattamento retributivo.
Tuttavia, affinché l’accordo in discorso sia valido ed efficace, è necessario che lo stesso venga perfezionato in una delle sedi di cui all’art. 2113 cod.civ., cd. sedi protette (ad es. organizzazioni sindacali, D.T.L., ecc.) ovvero dinanzi alle commissioni di certificazione.
Con il citato intervento normativo il Legislatore ha inteso codificare quello che in dottrina e giurisprudenza era un orientamento affermatosi nel tempo, ovvero il riconoscimento della possibilità di modifica delle mansioni anche in pejus a garanzia dell’interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione, all’acquisizione di una diversa professionalità o, ancora, al miglioramento delle proprie condizioni di vita.
In conclusione, va necessariamente fatto anche un accenno alla nuova disciplina delle dimissioni.
Per contrastare il fenomeno delle dimissioni “in bianco” – che di certo non rappresenta una delle criticità del mercato del lavoro numericamente più rilevanti -, il D.Lgs. n. 151/2015 ha introdotto una nuova modalità di comunicazione del recesso da parte del lavoratore.
A far data dal 12.03.2016 è possibile per il lavoratore comunicare la propria intenzione di interrompere il rapporto esclusivamente con modalità telematiche.
Il dipendente dimissionario è tenuto a compilare in autonomia il modello telematico da trasmettere al datore di lavoro tramite posta elettronica, anche certificata, ed alla Direzione territoriale del lavoro competente o, in alternativa, a rivolgersi a soggetti terzi che possano garantire la regolarità del procedimento.
Tra i soggetti che svolgono una funzione ausiliaria vi sono appunto le commissioni di certificazione.
Stefano Carotti – Centro Studi CGN