La sentenza nr. 21856 della Corte di Cassazione del 20 ottobre 2011 ha sancito che gli studi di settore non sono applicabili al lavoratore autonomo che riesca a dimostrare di avere pochi clienti ai quali fatturare l’intera prestazione.
Gli studi di settore sono uno strumento utilizzato dall’Amministrazione Finanziaria per poter rilevare i parametri fondamentali di reddito dei professionisti, lavoratori autonomi e delle aziende.
Vengono creati mediante una raccolta sistematica dei dati che caratterizzano l’attività e il contesto economico in cui opera l’impresa, allo scopo di valutare la sua capacità di produrre reddito.
L’ufficio delle imposte li utilizza, quindi, nell’accertamento cosiddetto “induttivo”.
Fino al 2009, lo studio di settore era uno strumento di accertamento considerato praticamente infallibile.
Era, infatti, sufficiente lo scostamento degli standard della dichiarazione dei redditi a legittimare l’atto impositivo.
Con la sentenza a sezioni unite della Corte di Cassazione n. 26635 del 2009, il campo di applicazione degli studi si è molto ridotto.
Ora, infatti, il contribuente, presentandosi al contradditorio con l’Amministrazione Finanziaria e, fornendo prove circa le peculiarità della sua attività e, quindi, del suo reddito rispetto al settore verificato, può ottenere l’annullamento dell’accertamento.
Il contribuente, in sede di contradditorio, ha l’onere di provare, senza alcuna limitazione di mezzi e contenuto, la sussistenza di condizioni che giustificano l’esclusione dell’impresa dall’area dei soggetti cui possono essere applicati gli standard o la specifica realtà dell’attività economica nel periodo di tempo in esame.
La motivazione dell’atto di accertamento, invece, non può esaurirsi nel rilievo dello scostamento, ma deve essere integrata con la dimostrazione dell’applicabilità in concreto dello standard prescelto e con le ragioni per le quali sono state disattese le contestazioni sollevate dal contribuente.
L’esito del contradditorio, tuttavia, non condiziona l’impugnabilità dell’accertamento, potendo il giudice tributario valutare liberamente tanto l’applicabilità degli standard al caso concreto da dimostrarsi dall’ente impositore, quanto la controprova offerta dal contribuente che, al riguardo, non è vincolato alle eccezioni sollevate nella fase del procedimento amministrativo e dispone della più ampia facoltà incluso il ricorso a presunzioni semplici.
Nel caso specifico, il lavoratore autonomo, dopo aver ricevuto un accertamento IVA, IRPEF ed IRAP aveva adito la Commissione Tributaria provinciale di Firenze contestando la pretesa tributaria.
I giudici avevano respinto la contestazione confermando l’atto impositivo. Successivamente, la decisione è stata confermata anche dalla Commissione Tributaria Regione Toscana ed ora, invece, colpo di scena, la Corte di Cassazione, cui il contribuente ha presentato ricorso, ha ribaltato il verdetto.
Infatti, il lavoratore autonomo è riuscito a dimostrare di avere pochi clienti e di non poter, quindi, rientrare nel range previsto dagli studi di settore.
Non solo. Il contribuente ha, inoltre, dimostrato di aver fatturato tutte le prestazioni eseguite. Due dati che secondo Piazza Cavour sarebbero sufficienti a disapplicare il metodo usato dal fisco.
Ora gli atti torneranno a Firenze dove la Commissione Tributaria Regionale , in diversa composizione, dovrà rivalutare l’intero caso.