Per quanto tempo vanno conservate le fatture e i documenti contabili? E a quali responsabilità va incontro l’imprenditore o il professionista che non conserva le fatture e i libri contabili obbligatori per legge?
Le norme civilistiche prevedono un principio generale sulla conservazione delle scritture contabili, secondo il quale le lettere, la corrispondenza commerciale, i telegrammi e le fatture vanno conservati per 10 anni dalla data delle loro ultima registrazione.
Lo stesso principio viene ripreso anche dallo Statuto del contribuente (legge 212/2000), il quale all’articolo 8, comma 5, stabilisce che l’obbligo di conservazione di atti e documenti, stabilito ai soli effetti tributari, non può eccedere il termine di dieci anni dalla loro emanazione e dalla loro formazione.
E così, trascorsi i 10 anni, i documenti fiscali possono essere distrutti o smaltiti e nessun controllo su di essi potrà essere effettuato successivamente a tale periodo. Tuttavia, nel caso in cui sia in corso un accertamento, le scritture contabili obbligatorie devono essere conservate anche oltre questo termine e almeno fino a quando non siano definiti gli accertamenti relativi al corrispondente periodo d’imposta.
Ci sono poi disposizioni fiscali più specifiche che possono prevedere termini inferiori per l’obbligo di conservazione di fatture, documenti o altro, a seconda del tipo di tributo. I documenti fiscali allegati alla dichiarazione dei redditi, ad esempio, devono essere conservati fino al 31 dicembre del quarto anno successivo alla presentazione della stessa. Per 5 anni devono essere anche conservate le ricevute d’affitto, le utenze domestiche, le multe e le contravvenzioni.
Per quanto concerne invece i documenti informatici rilevanti ai fini tributari, come ad esempio le fatture attive e passive, i documenti di trasporto, i registri IVA e i registri contabili, essi non sono esonerati dal rispetto delle norme civilistiche (il riferimento è agli articoli 2220, 2214, 2215 bis e 2217 del codice civile).
Quindi, tutti i documenti digitali (ossia i documenti dematerializzati) validi ai fini fiscali devono possedere i requisiti dell’immodificabilità, dell’integrità, dell’autenticità e della leggibilità. Solo in questo modo è possibile garantire la certezza della paternità e la non alterabilità dei documenti stessi.
Ma cosa accade all’imprenditore che non conserva o che smarrisce le fatture? A quali responsabilità va incontro?
In caso di controllo fiscale, l’imprenditore o il libero professionista che, anche in assenza di dolo, non ha conservato le fatture e i documenti contabili obbligatori, impedendo di fatto la ricostruzione del volume d’affari della sua attività, è responsabile penalmente ed incorre nel reato di distruzione di documenti contabili.
A stabilirlo è la Corte di Cassazione che con la sentenza n. 6752 del 21 febbraio 2012, ha condannato un piccolo imprenditore per non avere conservato correttamente le scritture obbligatorie, impedendo di fatto la ricostruzione del volume d’affari e la dichiarazione dei redditi della propria ditta.
Secondo la Cassazione, il reato di occultamento o distruzione di documenti contabili può essere attribuito al contribuente, anche se non si può provare la volontà di quest’ultimo di evadere le imposte. Per i giudici della Suprema Corte, sarebbe quindi sufficiente il comportamento concludente del contribuente consistito nella mancata o parziale conservazione dei documenti o nell’aver reso impossibile o solo più difficile la ricostruzione del volume d’affari.
Il contribuente, tuttavia, se vuole evitare la condanna, deve dimostrare che il proprio volume d’affari è comunque ricostruibile sulla base di elementi alternativi e da altri documenti in suo possesso.
Antonino Salvaggio – Centro Studi CGN