Qualora la violazione tributaria presenti anche rilievi di natura penale, deve considerarsi legittima l’irrogazione delle sanzioni amministrative in misura maggiore rispetto al minimo edittale. La ragione è da imputare al fatto che la condotta penalmente rilevante esprime un disvalore maggiore rispetto a quella non sanzionata penalmente. È questo il principio che può desumersi dall’Ordinanza della Corte di Cassazione n. 4927/2019.
La vicenda
Durante una perquisizione, la Guardia di Finanza aveva rinvenuto, acquisito e sequestrato alcuni supporti informatici e altra documentazione che facevano presumere l’esistenza di una contabilità parallela “in nero” e aveva quindi emesso il relativo processo verbale di constatazione.
L’Agenzia delle entrate, stante il contenuto del processo verbale, aveva emesso due avvisi di accertamento in materia di Iva e irrogato le relative sanzioni.
A questo punto, la società aveva impugnato entrambi gli atti che, tuttavia, erano stati rigettati sia dalla Commissione tributaria provinciale sia dalla Commissione tributaria regionale.
La società aveva fatto ricorso quindi, in Cassazione per:
- la violazione dell’articolo 6, comma 8, D.lgs. n. 471/1997, dell’articolo 3, comma 3, D.lgs. n. 47/1997, dell’articolo 41, comma 6, Dpr n. 633/1972 e del principio generale del favor rei;
- la violazione dell’articolo 7, D.lgs. n. 472/1997, lamentando in particolare l’illegittima applicazione della sanzione in misura superiore al minimo edittale perché la rilevanza penale della violazione, utilizzata dall’Amministrazione finanziaria come motivazione, non costituisce “un parametro per la quantificazione della sanzione amministrativa, che deve tener soltanto conto del comportamento tenuto dal trasgressore, della gravità delle violazioni e del danno arrecato”.
Secondo la società ricorrente, quindi, la Commissione tributaria regionale non avrebbe tenuto conto del fatto che la presenza di una condotta penalmente rilevante della violazione contestata non rientra tra i criteri di “gravità” previsti dall’art. 7 e che legittimerebbero, quindi, l’irrogazione della sanzione in misura superiore al minimo edittale.
Di parere contrario la Corte di Cassazione, che ha ritenuto infondato il motivo del ricorso. In via preliminare, infatti, la Corte ha ricordato che, per la determinazione della sanzione amministrativa, l’art. 7, comma 1, D.lgs. n. 472/1997 prevede che “nella determinazione della sanzione si ha riguardo alla gravità della violazione desunta anche dalla condotta dell’agente, all’opera da lui svolta per l’eliminazione o l’attenuazione delle conseguenze, nonché alla sua personalità e alle condizioni economiche e sociali”.
Secondo i giudici della Suprema corte, quindi, la norma in esame va interpretata facendo riferimento ai parametri:
- della gravità della violazione;
- dell’opera successivamente svolta dall’agente per eliminare o attenuarne le conseguenze;
- della personalità dell’agente;
- delle sue condizioni economico-sociali.
Ne deriva che, sebbene possa essere desunta anche da altri fattori, la gravità della violazione può essere certamente commisurata alla “condotta dell’agente”.
Stante quanto sopra descritto, i giudici della Suprema corte hanno quindi concluso che “la astratta rilevanza penale di una violazione di norma tributaria implica già l’espressione di un disvalore normativo riguardo alla condotta tipica, certamente maggiore rispetto a quelle violazioni non sanzionate penalmente” e, quindi, che la rilevanza penale della violazione legittimi l’incremento della misura della sanzione, rispetto al minimo edittale.
Massimo D’Amico – Centro Studi CGN