L’articolo 26 del Decreto Legislativo 2015, n. 151 ha reso obbligatoria l’adozione di una forma specifica per la comunicazione delle dimissioni volontarie da parte della generalità dei lavoratori dipendenti e la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro. Queste devono avvenire, “a pena di inefficacia, esclusivamente, con modalità telematiche su appositi moduli resi disponibili dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali”.
Relativamente a tale disciplina sono sorti dubbi in seguito alla recente sentenza della Cassazione n. 25583 del 10 ottobre 2019 che, confermando quanto stabilito dalla Corte d’Appello, ha sancito la validità delle dimissioni del lavoratore anche nel caso in cui manchi una manifestazione formale della volontà di risolvere il contratto (se questa sia deducibile in modo inequivocabile dal suo comportamento che, di fatto, manifesta la volontà di interrompere la prestazione lavorativa e recedere dal rapporto – dimissioni per c.d. fatti concludenti).
Nel caso concreto analizzato dalla Suprema Corte, il lavoratore contestava la risoluzione del rapporto di lavoro, riconosciuta in entrambi i gradi del giudizio, ritenendo sbagliata l’interpretazione del suo comportamento come volontà di dare le dimissioni (tacite).
A seguito della sentenza, sussiste il dubbio se le dimissioni debbano essere formalizzate obbligatoriamente tramite le procedure telematiche in qualsiasi caso oppure se siano valide anche come conseguenza di fatti concludenti, come nel caso di assenza ingiustificata e prolungata dal posto di lavoro, nuova occupazione o abbandono del territorio nazionale, comportando quindi l’inadempimento delle obbligazioni discendenti dal rapporto.
Tale comportamento, quindi, può anche essere meramente omissivo. Nell’affermare detto principio, i giudici di legittimità richiamano precedenti pronunce, orientate nella medesima direzione (Cass. n. 5454/2011 e n. 6604/2000).
Ad avviso di alcuni la sentenza comporterebbe un superamento del requisito formale delle dimissioni telematiche, previsto a pena di inefficacia; altri vedono in essa una nuova prevalenza della sostanza sulla forma, così come prevista in origine dall’ art. 2118 del Codice civile, che non imponeva nessun vincolo di forma per il recesso dal rapporto di lavoro, desumibile quindi anche da comportamento concludente (principio della libertà di forma).
Tuttavia tale interpretazione e applicazione della norma sarebbe valida, per il principio tempus regit actum, solamente relativamente ad un caso avvenuto quando non erano previsti dalla legge espliciti vincoli di forma.
La sentenza non è volta ad introdurre alcuna novità relativamente alla obbligatorietà del requisito formale delle dimissioni telematiche e tale conclusione è desunta sia dall’anno a cui risalgono i fatti (2011), precedente all’entrata in vigore della norma che impone le dimissioni con modalità esclusivamente telematiche, sia in modo esplicito dalla stessa sentenza.
Infatti anche se la Cassazione ammette la possibilità di desumere le dimissioni da un determinato comportamento tenuto dal lavoratore, tale da lasciar intendere – secondo il principio dell’affidamento – la volontà di recedere dal rapporto di lavoro, pone la condizione che “non sia prevista alcuna forma convenzionale per il recesso del lavoratore”. E tale requisito formale è attualmente imposto dalla legge, esplicitamente ed a pena di inefficacia.
In concreto, se il lavoratore si allontana spontaneamente e in modo prolungato dall’azienda e, incurante degli inviti del datore di lavoro, omette di inoltrare le dimissioni telematiche, secondo l’attuale dettato normativo le dimissioni non sarebbero efficaci. Pertanto, per far cessare il rapporto, il datore dovrebbe procedere al licenziamento con conseguente versamento del contributo sulle cessazioni dei rapporti di lavoro.
Il lavoratore che “si dimette” abbandonando ingiustificatamente il posto di lavoro, senza adempiere agli oneri di forma, costringendo il datore a licenziarlo, godrà anche del trattamento di disoccupazione che invece non gli sarebbe dovuto.
Conseguenze sussistono anche relativamente all’obbligo, in tal caso disatteso, del prestatore di lavoro di rendere l’attività lavorativa nel corso del preavviso, da cui discende il diritto del datore di lavoro di addebitare il così detto “mancato preavviso”.
È vero che, per il principio della corrispettività, il datore di lavoro non è tenuto in casi come questo a riconoscere alcunché, ma, nell’inadempimento degli oneri procedurali che la legge pone a carico del lavoratore, dovrà attivarsi per risolvere il rapporto di lavoro, facendosi egli stesso carico degli oneri procedurali, di quelli economici immediati (c.d. ticket licenziamento), connessi all’instaurazione di un procedimento di licenziamento disciplinare, e più in generale di tutte le conseguenze che ne derivano. E a causa della trascuratezza di un altro soggetto, tale onere di iniziativa, paradossalmente, diviene utile per un sua esclusiva tutela.
I requisiti di forma servono, infatti, a garantire che le dimissioni del lavoratore siano davvero libere, dato lo stato di soggezione del lavoratore subordinato rispetto al datore di lavoro sua controparte.
Ciò era già previsto in passato, per esempio, per le dimissioni della lavoratrice madre o in prossimità del matrimonio, proprio per accertare la spontaneità della volontà di risolvere il rapporto di lavoro.
Il fatto che il principio della libertà di forma (art. 2118 c.c.) non rappresenti un dogma è testimoniato anche dalla normativa in materia di licenziamenti: prima ancora dello Statuto dei Lavoratori (art. 18 della L. 300/70), già la legge sui licenziamenti individuali prevedeva, infatti, specifici vincoli di forma ai fini della validità del licenziamento, con l’intento di tutelare i diritti in gioco in un momento fondamentale come quello della risoluzione di un contratto di lavoro (L. 604/66).
In definitiva le dimissioni, anche se rappresentano l’esercizio di un diritto disponibile del lavoratore subordinato, possono prevedere, (in via convenzionale e, quindi a maggior ragione, per effetto di esplicita previsione di legge), vincoli di forma, in mancanza dei quali le si ritiene invalide.
Come costituzionalmente previsto nel nostro ordinamento, la previsione di un requisito di forma, individuato dalla contrattazione collettiva o dal Legislatore, è volta a trovare un equilibrio tra il riconoscimento dell’esercizio della libertà del lavoratore, che non può essere costretto a lavorare contro la sua volontà, e la tutela della effettività dell’esercizio di tale libertà.
Quindi rimane il principio della disponibilità del rapporto di lavoro: infatti non è richiesta alcuna giustificazione per le dimissioni (quelle per giusta causa permettono di interrompere immediatamente il rapporto di lavoro senza osservare il periodo di preavviso e pretendere il pagamento dell’indennità sostitutiva e con conseguente diritto al trattamento di disoccupazione, altrimenti escluso).
In conclusione, le dimissioni rassegnate fuori dai canoni di forma legali, ovvero esclusivamente con comunicazione telematica al Ministero del Lavoro, debbono essere considerate tamquam non esset, prive di validità, ovvero vi è obbligatorietà della osservanza dei vincoli, formali e procedurali, ai fini della validità della risoluzione del rapporto di lavoro per le dimissioni del dipendente.
È pacifico che in assenza dell’assolvimento degli oneri formali e procedurali il rapporto di lavoro non può intendersi risolto, e ciò anche quando il comportamento del lavoratore sia palesemente idoneo ad esprimere la volontà di non proseguire il rapporto di lavoro.
La sentenza in esame non rafforza il primato della sostanza sulla forma, dovendosi ritenere applicabili quei principi soltanto a quelle fattispecie realizzatesi prima dell’entrata in vigore delle attuali disposizioni di legge.
Relativamente agli oneri a carico del datore di lavoro che si vede costretto a procedere ad un licenziamento, la L. 92/2012 prevedeva come soluzione l’invito del datore di lavoro al lavoratore dimissionario inadempiente ed il riconoscimento della risoluzione del rapporto di lavoro in caso di ulteriore silenzio, decorso un termine previsto dalla norma. Tale possibilità non è stata però riportata nel D.Lgs. 151/2015.
Una previsione simile sarebbe necessaria, invece, per trovare un equilibrio in relazione all’istituto delle dimissioni e le conseguenze che ne derivano. Attribuendo valore all’ulteriore silenzio, per un tempo ragionevolmente breve e senza lasciare il datore di lavoro in situazione di incertezza, non solo si sgraverebbe quest’ultimo da diversi oneri, ma si garantirebbe la certezza del diritto e si impedirebbe la fruizione fraudolenta di prestazioni assistenziali.
Francesco Geria – LaborTre Studio Associato