La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 32651 del 02/09/2021, ha chiarito in presenza di quali presupposti può parlarsi di evasione da riscossione, ex art. 11 del D.lgs. n. 74 del 2000.
Nel caso di specie, la Corte d’appello, per quanto di interesse, aveva confermato la responsabilità penale degli imputati per il reato di cui al citato art. 11.
Avverso tale sentenza gli imputati proponevano quindi ricorso per cassazione, deducendo l’erronea applicazione dell’art. 11 del D.lgs. 74/2000.
In particolare gli imputati deducevano che non era stata accertata la effettiva idoneità dell’atto dispositivo a ledere le pretese del Fisco, non essendo stata verificata la capienza del residuo patrimonio degli imputati rispetto all’importo dei debiti fiscali contestati e dovendosi quindi applicare la regola dell’in dubio pro reo, trattandosi di reato di pericolo concreto.
Neppure infine, si sosteneva, era stata accertata la sussistenza del dolo specifico: per un verso, infatti, quest’ultimo era stato appiattito a mera consapevolezza dei fatti costitutivi e, per altro verso, l’accertamento era stato inammissibilmente compiuto in base ad una mera presunzione legata al vincolo familiare, che al più poteva costituire un indizio, di per sé non sufficiente all’affermazione della responsabilità penale.
Secondo la Suprema Corte, quanto al primo motivo di impugnazione sopra evidenziato, la censura era fondata.
Infondata invece era l’altra censura, attinente al merito.
La sentenza impugnata aveva infatti ritenuto provato il dolo specifico per aver l’imputata compiuto una serie di operazioni, tradottesi nel compimento di atti di alienazione simulata (circostanza mai contestata), allo scopo di impedire al Fisco di aggredire le quote di proprietà dei fratelli, nell’ambito di un malinteso vincolo solidaristico familiare.
Se dunque, da un lato, la sentenza argomentava sul dolo specifico (e non solo su quello generico), d’altro lato si trattava comunque di una valutazione dei fatti – e non già di una presunzione – non manifestamente illogica e quindi non censurabile in Cassazione.
Quanto invece all’altra censura, la Suprema Corte rileva che il delitto ex art. 11 del D.lgs. n. 74/2000 è un reato di pericolo, che, a prescindere dalla sussistenza di un’esecuzione esattoriale in atto, postula l’idoneità – in base ad un giudizio “ex ante” che valuti la sufficienza della consistenza del patrimonio del contribuente in rapporto alla pretesa dell’Erario – a rendere inefficace, in tutto o in parte, l’attività recuperatoria dell’Amministrazione finanziaria.
È quindi in questi casi necessario (e sufficiente) dimostrare, con adeguato supporto motivazionale, l’idoneità della condotta ad evitare il soddisfacimento dell’obbligazione tributaria, o, quantomeno, a rendere più difficoltoso il recupero del credito erariale.
Tanto premesso, nella specie, la sentenza di primo grado aveva affermato che l’apparente spossessamento dei beni immobili avrebbe «reso quantomeno più difficile – se non impossibile – il recupero dei crediti fiscali da parte dello Stato», ma non aveva in alcun modo argomentato le ragioni di tale conclusione, con particolare riguardo all’insufficienza del residuo patrimonio del debitore ad estinguere il debito fiscale.
Gli imputati avevano del resto specificamente contestato proprio la lacuna motivazionale sul punto, laddove, come detto, non era stata svolta alcuna indagine sulla consistenza patrimoniale del debitore.
E su tale doglianza la sentenza impugnata non aveva espresso niente di rilevante, laddove invece la stessa censura avrebbe meritato una più articolata disamina, anche solo per eventualmente rilevarne l’infondatezza.
In termini generali e a prescindere dallo specifico caso processuale, giova comunque evidenziare quanto segue.
La fattispecie criminosa di sottrazione fraudolenta va qualificata come reato di pericolo concreto, integrato dall’uso di atti simulati o fraudolenti per occultare i propri o altrui beni, idonei a pregiudicare, secondo un giudizio ex ante, l’attività recuperatoria dell’Amministrazione finanziaria.
Oggetto giuridico del reato non è dunque il diritto di credito dell’Erario, bensì la garanzia generica, rappresentata dai beni dell’obbligato, potendosi, pertanto, configurare il reato anche nel caso in cui, dopo il compimento degli atti fraudolenti, si verifichi comunque il pagamento dell’imposta e delle relative sanzioni.
Giovambattista Palumbo